La grandezza di Elliott
Smith, delle sue canzoni così fragili e perfette la si può vedere
scovando su youtube il video della sua apparizione alla serata di
premiazione degli Oscar nel 1998 quando davanti alla platea e a
milioni di telespettatori collegati da tutto il mondo, con uno
smoking bianco troppo largo e la sua chitarra acustica, suona, timido
e impacciato, uno dei più bei pezzi di cantautorato moderno; Miss
Misery, pezzo per il quale Smith era stato candidato all'oscar, un
pezzo troppo bello e troppo sbagliato per poter incidere su
un'umanità così numerose e stolta. Ovviamente anche quella serata
finirà con una sconfitta, Miss Misery verrà battuta dalla pomposa e
petulante canzone di Celine Dion per il film “Titanic”.
La storia di Elliott
Smith è raccontata dalle sue canzoni, dalle ballate terribilmente
depresse degli esordi, fino alle perfette canzoni beatlesiane degli
ultimi, sottovalutati, dischi. Un percorso artistico che ha trovato
compimento nella fine del cantautore di Omaha, in quell'atto finale,
brutale e disperato che rappresenta come null'altro il conflitto
interiore di Smith. Un coltello che prima spacca lo sterno e poi
trafigge il cuore che piano, piano smette di pulsare. Quanto dolore
si deve provare per arrivare ad un tal gesto? Una morte autoindotta e
dolorosa dolorosissima come la vita vissuta sino a quel punto, una
vita troppo pesante, opprimente e devastante da non poter più essere
sopportata.
Forse l'unicità di
Elliott Smith sta proprio in quel mal di vivere che lo ha sempre
tormentato, in tutti i suoi pezzi, anche quelli più pop e divertenti
si percepisce un fondo di insoddisfazione, di sconfitta e
rassegnazione. Non c'è nessuno né del presente, che nel passato che
mi trasmetta un sentimento di malessere come Elliott, le sue canzoni
sono un portale verso gli antri più reconditi della mente umana,
strade che conducono ad abissi di disperazione che non vorresti mai
percorrere, ma che tuo malgrado spesso e volentieri sei costretto a
seguire. Le canzoni di Elliott Smith, che siano solo un dolente
arpeggio di chitarra o un più raffinato arrangiamento orchestrale
sono delle meravigliosi strapiombi sul dolore, penso che solo
ascoltando Neil Young si possa percepire un tale sentimento di
ineluttabilità, la sensazione di una tragedia imminente.
Dopo una prima parte di
carriera prevalentemente acustica culminata nel più variegato
either/or , capolavoro di Smith e uno dei dischi più belli non solo
degli anni '90, ma del cantautorato americano tutto ( e se dico tutto
dico pure Dylan e Cohen), l'ex cantante dei Heatmiser decide di dare
più colore, vigore ed intensità alla propria musica e X/O è li a
testimoniarlo, monumento alla melodia, un atto d'amore verso i
Beatles e alla loro musica.
La crisalide che si
trasforma in farfalla, bellissima, leggiadra e colorata. “Sweet
Adeline” inizia con un arpeggio di chitarra sul quale Smith canta,
poi, inizia un crescendo di strumentazioni, prima un synth e poi
elettriche, pianoforte e batteria che arricchiscono il meraviglioso e
ritmato ritornello, uno di quei ritornelli che ti si lega alle
sinapsi per non lasciarle più.
Ancora chitarra e voce
per la delicata “Tomorrow Tomorrow” un capolavoro vocale, dove i
cori rendono il pezzo un delicato canto gregoriano pop.
Waltz#2 è uno degli
apici dell'album, una triste ballata di pazzesca intensità, uno di
quei pezzi di cui parlavamo prima, ineluttabilità, tragedia
imminente. Uno squarcio di buio nella luce del giorno, un'eclissi di
sole. Bellissima. L'atmosfera si fa meno atroce con “Baby Brittain”
una divertente filastrocca, quasi una canzone per una bambina guidata
da una chitarra beatlesiana e un piano honky tonk rallentato, questa
volta la luce rimane accesa ed è intensissima.
Ancora un'acustica e poi
un piano ad infuocare l'atmosfera in “Pitseleh”prima di una gemma
da chitarra acustica, piano elettrico e percussioni come
“Indipendence Day” , un attentato. La melodia raffinata di Smith
si sposa con l'incredibile pasta e intensità della sua voce che nel
crescendo finale mette letteralmente i brividi quanto è perfetta ed
esiziale la sua idea di musica. Un pop depresso, ma anelante una
felicità impossibile, come nella splendida “Bled White” dove il
ritmo si alza e la batteria guida un moog stralunato, Elliott sembra
quasi felice mentre canta, “perchè dovrò essere alta per
trascinare verso il basso il tramonto e colorare questa città”.
Waltz#1 invece è una
classica ballata Smithiana triste e dimessa lasciata al pianoforte e
al suo falsetto. “Amity” è l'ennesimo capolavoro di pop
elettrico, un primo esperimento verso l'elettricità del successivo
“Figure 8”, memore dell'esperienza Heatmiser, ma maggiormente
raffinato e dolente.
XO sembra un lento
ottovolante, su e giù tra sentimenti altalenanti tristezza, ricerca
di serenità, felicità. La perfezione estetica di Smith (di questo
si tratta, di perfezione e rigore d'estetica pop) si manifesta ancora
in magnifiche ballate per chitarra e orchestra come “Bottle up end Explode” e nell'elettrica “Question Mark” uno dei pezzi più
“duri” di Smith, contrappuntato da un saxofono nella prima parte
e una chitarra quasi funk si apre in un refrain killer, capolavoro.
Dopo una dolente
“everibody cares, everibody understand” dal finale mozzafiato tra
assoli di chitarra che sembrano flauti e un crescendo d'archi di cui
George Martin sarebbe orgoglioso, il disco si chiude con un pezzo
per solo voce e cori, dove Smith si trasforma in un mellotron umano.
“I didn't understand” è un distillato di tristezza, come da
abitudine Elliott Smith lascia l'ascoltatore con la canzone più
triste dell'intero disco, come in precedenza ha fatto con “The
biggest lie” (a conti fatti il capolavoro assoluto di Smith e
l'apice del suo personale concetto di disperazione, io, per tanti
motivi, non riesco più ad ascoltarla tanto è il dolore che emana e
i ricordi che fa riaffiorare alla mente), “Say Yes” e in futuro
farà con la gelida “Bye” e la postuma e chiarificatrice “...a
distorted reality is now a necessity to be free”.
Il calvario interiore di
Smith è il nostro calvario, un discesa ripida verso il fondo, molte
volte noi riusciamo ad aggrapparci a qualcosa, io per esempio anche
alle sue canzoni, lui invece non è riuscito, nonostante tutto
l'amore che contenesse, a trovare nulla per cui valesse la pena
continuare a soffrire. Nessuno prima, forse solo Drake, e nessuno
dopo, o assieme (no, nemmeno Will Oldham, se ve lo state domandando)
ha raccontato il dolore e la rassegnazione come l'ha raccontata
Smith, senza dover per forza scrivere testi macchiati di sangue o
devastazione interiore, lasciando che fosse la sua voce ad
interpretare il suo animo.
Sono stato fortunato a
viverlo in diretta a 18anni, Elliott Smith, lo so, una cura
formidabile contro la durezza di un'età infame.
Gli devo un grazie, ma
non i soliti grazie che si leggono sulle bacheche di facebook, un
grazie vero.
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