venerdì 3 agosto 2012

The Van Pelt, i sultani del sentimento




Racchiudere in sè un sentimento, trasmetterlo al mondo esterno, far fiorire nuovi linguaggi, nuova materia e poi sparire. Questo è stato il percorso artistico dei Van Pelt, gruppo americano nato, vissuto e poi estintosi durante l'ultima grande annata musicale americana, gli anni '90. I Van Pelt, come tanti altri gruppi di cui abbiamo parlato anche qui, sono una sintesi, un perfetto equilibrio di esperienze e fonti che si mescolano e producono qualcosa di nuovo e vivo. L'esperienza musicale americana è in continuo divenire da sempre, nei sotterranei dei palazzi le generazioni di musicisti hanno continuato a elaborare concetti, a costruire strutture su cui appoggiare le future dinamiche musicali. Dal rock'n roll sporcato e trasformato in garage per mutare, dopo vari incesti, nel punk che, sposato con le reminiscenze sixteen si è a sua volta evoluto nell'indie rock anni '80, passato attraverso il tritacarne hardcore, divenuto post hardcore, sadcore e poi emo e post emo. Sembra non fermarsi mai il fluire continuo del medium musicale americano e, arrivati all'altezza del 1997, quando in Inghilterra un gruppetto di manigoldi decide di dare una svolta al vecchiume anglosassone ponendosi, di fatto, come i salvatori della musica tutta (non salveranno niente a parte i loro conti in banca e le aspettative dei giovani ragazzi che pretendono di essere alternativi ascoltando le convenzioni) i Van Pelt codificano la loro forma musicale, compattando in Sultans of Sentiment le intuizioni precedentemente elaborate nell'ottimo, ma più convenzionale, “Stealing from Our Favorite Thieves”.

Non ho mai nascosto il mio odio smisurato per il post rock, un atto di cattiveria, a mio avviso esiziale, nei confronti della musica che preferisco. L'hardcore rallentato e rarefatto degli Slint (l'inizio di tutto, l'inizio della fine) è musica assolutamente apprezzabile, così come lo sono le successive evoluzioni, a scanso degli eccessi tecnicistici di gente come i Tortoise, il post rock non è stato altro che una delle ramificazioni dell'indie rock statunitense e come tale va esattamente nella direzione giusta, solo che non cantano, ma perchè non cantano? Come si può amputare una parte così importante in una canzone, a cosa servono cavalcate chitarriste epiche se non arrivano ad un urlo e a delle parole che ci ricordino di essere vivi? Neil Young in “Cortez the killer” (la vostra più grande influenza) alla fine si mette a cantare, perchè voi non cantate? L'incomunicabilità, ecco cosa odio del post rock.


Scusate la digressione, ma serviva appunto per spiegare il mio amore incondizionato per “Sultans of Sentiment”, una perfetta fusione di post rock, indie, un pochino di furore post hardcore con un recitato che è una meravigliosa resa alla più piacevole forma canzone. A scanso di equivoci, non sto assolutamente affermando che i Van Pelt siano una semplice deriva post rock leggermente variata, i Van Pelt sono qualcosa di unico, che non c'era prima e che non è più stato ripetuto tante e complicate sono le loro peculiarità.



Dolenti arpeggi di chitarra si alternano a cavalcate elettriche sghembe e dissonanti per tutto il disco, delicate ballate con un fondo sempre amaro e appiccicose scorribande di pop deforme ad altezza Pavement, esperimenti sulla ritmica che quasi ricordano la new wave ("TheYoung Alchemists"). Atmosfere coinvolgenti, momenti di tensione che si stemperano in dolci ritornelli, i sultani del sentimento, su una cosa non ci si può sbagliare, i Van Pelt sono emo fino al midollo, un'emotività che si evidenzia dalla musica sempre nervosamente appesa ad un filo di razionalità ("Yamato") che nelle liriche piene di allusioni e derive adolescenziali, giungono al cuore al colmo delle emozioni ("Don't Make me Walk my own Log").



L'alternanza di ballate incredibili come “The Good, the Bad & the Blind” (esiziale crescendo di tristezza in musica, probabilmente il punto più alto del disco e di tutta la scena emo anni '90 e un passo sotto solo all'incommensurabile slowcore dei Codeine, pietra angolare e riferimento evidente per la band di Leo) e pezzi più canonicamente indiepop come “"We are the Heathens” (altro apici di sublime bellezza) e scariche di energia e elettricità ("My Bouts With Pouncing"), non consentono mai all'ascoltatore di annoiarsi immerso com'è in questo delirio di bellezza e perfezione. Il raggiungimento della vetta, il perfezionamento di una formula, già di per se perfetta come l'indie rock statunitense. trova il compimento in “Sultan of Sentiment” consentendo al leader del gruppo e compositore principale Chris Leo di assurgere al ruolo di icona generazionale, anche per la sua integerrima etica indipendente che anni prima gli aveva fatto rifiutare un contratto milionario con una major. Proprio per una tale etica Leo, dopo aver scritto un capolavoro definitivo e di tale portata, invece di vivere di rendita, pubblicando un'altra mezza dozzina di album uguali, decide di mettere fine all'esperienza Van Pelt dopo solo due dischi lasciando in eredità un'opera di valore assoluto, una delle più intense esperienze musicali mai concepite.

Sultans of Sentiment dopo tanti anni riesce ancora a trasmettere le stesse emozioni di quando lo si è ascoltato la prima volta tanto è immediato il trasporto che trasmette, il concentrato di amore purissimo per la vita, nei suoi lati più belli quanto per quelli più amari, che si trova nei suoi solchi.
Un monito, un monumento alla bellezza e all'amore, al sentimento ad imperitura memoria, un accessorio necessario per affrontare le amarezze che ci riserva l'aridità della vita ai giorni d'oggi. Piangere non è mai stata un cosa vergognosa o sbagliata, i Van Pelt lo sapevano e io l'ho imparato grazie a loro.






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